Intervista a Riccardo Ridi
Dati, informazioni, conoscenza:
intervista a Riccardo Ridi
Sono io a conoscere i dati o i dati mi insegnano chi sono?
Di Daniele Gigli
Incontro per la prima volta Riccardo Ridi oltre tre anni fa, attraverso le pagine di un suo libro tanto interessante quanto fortunato, Il mondo dei documenti. Che cosa sono, come valutarli e organizzarli (Laterza 2010). Un libro in cui l’intreccio tra dato, informazione e conoscenza è sì trattato da un punto di vista documentalistico, ma in pieno riferimento al nesso che questi elementi hanno con la nostra quotidianità. Per questo, volendo parlare del rapporto tra Big Data e mondo dei comuni mortali, è stato naturale chiedergli di intervenire rispondendo a qualche domanda.
Lei si è laureato in Filosofia morale e insegna Biblioteconomia all’università Ca’ Foscari di Venezia. Che cosa c’entra la filosofia con la biblioteconomia? Che percorso l’ha condotta da una disciplina all’altra e come la prima informa i suoi studi e il suo lavoro attuale?
Filosofia e biblioteconomia sono strettamente collegate, sia oggettivamente che nella mia esperienza personale. La biblioteconomia studia come si possono selezionare, raccogliere, organizzare e rendere accessibili nel modo migliore certi tipi di documenti, e vari autori pensano che il suo nucleo disciplinare più essenziale sia costituito dalla organizzazione della conoscenza, ovvero dallo studio dei metodi, degli strumenti, dei principi e delle categorie che stanno alla base di ogni forma di ordinamento e di mappatura delle informazioni contenute nei documenti stessi (e, secondo alcuni, anche altrove). Tale tendenza a organizzare e classificare è condivisa dalla filosofia, che è però ancora più ambiziosa della biblioteconomia, perché pretenderebbe di «mettere in ordine» non solo documenti e informazioni ma addirittura la realtà stessa, o almeno la conoscenza che gli esseri umani possono averne. A causa di questa comune vocazione capita spesso che le categorie biblioteconomiche si basino più o meno direttamente su categorie filosofiche.
A livello personale ho studiato filosofia all’università perché mi è sempre piaciuto «classificare», e la filosofia mi permetteva di farlo al livello più profondo, ma non ho mai pensato di fare il filosofo (o l’insegnante di filosofia) come professione. Mi ha sempre attratto, piuttosto, il lavoro del bibliotecario, un po’ perché mi avrebbe permesso di continuare a classificare, ma in modo più concreto, e un po’ forse anche – lo ammetto – perché entrambi i miei genitori hanno lavorato a lungo nelle biblioteche del Ministero dei beni culturali, a Firenze. Ho dunque vinto un concorso per fare il bibliotecario presso la Scuola normale superiore di Pisa, dove sono rimasto fino a quando, avendo pubblicato nel frattempo diversi libri e articoli su argomenti professionali, ho vinto un altro concorso per insegnare biblioteconomia a Venezia.
Sia come bibliotecario che come docente di Biblioteconomia il mio settore di specializzazione è stato a lungo quello dei documenti digitali, soprattutto in internet, ma da qualche anno la mia iniziale passione per gli aspetti più teorici è tornata a farsi sentire, e attualmente mi occupo soprattutto della deontologia professionale dei bibliotecari – ovvero, in fin dei conti, di filosofia morale – e di filosofia dell’informazione, che potrebbe essere considerata una branca dell’epistemologia. Di nuovo, quindi, filosofia e biblioteconomia intrecciate insieme, sia oggettivamente che soggettivamente.
Su tutti i giornali oggi si parla di Big Data. Ce ne può dare la sua versione, al lordo e al netto delle semplificazioni giornalistiche? Che ruolo resta al singolo uomo di fronte a questa mole di dati che sembra capace di descriverlo in ogni minuzia fino a prevederne i pensieri?
I cosiddetti Big Data sono quelli contenuti in banche dati elettroniche così ricche, complesse e dinamiche (anche perché, in genere, alimentate da procedure automatiche) da renderle difficilmente gestibili coi metodi e gli strumenti che si applicano solitamente a banche dati più piccole e alimentate «a mano» come i cataloghi delle biblioteche o gli orari dei treni. Non è quindi detto che tutti i Big Data descrivano caratteristiche e comportamenti di esseri umani, con i conseguenti rischi relativi alla privacy. Ne esistono anche, ad esempio, di metereologici o astronomici, i quali non mi pare implichino pericoli particolarmente temibili rispetto alla prevedibilità delle azioni – o addirittura dei pensieri – delle singole persone, se non molto indirettamente e comunque anonimamente.
È però anche vero che un numero crescente di informazioni vengono create registrando automaticamente i nostri comportamenti nei siti web commerciali e nei social network, e che la proliferazione dei dispositivi elettronici mobili (smartphone, tablet) e dei sistemi di sicurezza e controllo (telecamere a circuito chiuso, identificatori a radiofrequenza) produce una enorme massa di dati personali che potrebbero essere utilizzati in modo spiacevole o addirittura pericoloso, sia collettivamente che individualmente. Il ruolo di ciascuno di noi, in questo scenario, è da una parte quello di fare più attenzione alle informazioni che spesso diffondiamo con troppa leggerezza e, dall’altra, quello di vigilare perché vengano rispettate da tutti i soggetti coinvolti le norme etiche e giuridiche su come i dati personali vengono raccolti, conservati e utilizzati. Se ci fosse sufficiente impegno su entrambi i fronti credo che potremmo convivere felicemente coi Big Data senza troppe preoccupazioni.
A proposito di dati grandi e piccoli… Nel suo libro Il mondo dei documenti lei identifica in maniera ben distinta alcuni termini chiave quali dato, informazione, conoscenza… Il dato, lei scrive è un «atomo informativo», che ha «carattere funzionale» e «si plasma di volta in volta in base al contesto», mentre l’informazione è un «insieme di dati organizzati in un contesto che attribuisce loro un significato», ed è «sempre su qualcosa». Possiamo perciò dire che secondo lei l’informazione è una somma di dati orientati secondo un principio ordinatore che ne precede la raccolta?
Non esattamente. Non sempre è necessario moltiplicare i dati per trasformarli in informazione. Talvolta è sufficiente saper contestualizzare e interpretare i dati già disponibili. Lo stesso scarabocchio rosso su un foglio protocollo è un mero dato – insignificante e inutile – se so soltanto che corrisponde a una determinata lettera dell’alfabeto latino (o, peggio ancora, se non riesco neppure ad associarlo a un alfabeto), ma diventa immediatamente una informazione – significativa e utile – non appena capisco che indica la valutazione che un insegnante ha assegnato alla mia prova di esame.
E il «principio ordinatore», o «interpretativo», o «classificatorio», non è detto che debba sempre precedere la raccolta, perché può anche capitare che dati raccolti per un certo scopo forniscano informazioni impreviste una volta che si applichino loro griglie interpretative diverse.
Un altro nodo che il suo libro tratta e che mi appare strettamente legato al nostro discorso è il rapporto tra informazione, conoscenza e coscienza. Lei definisce la conoscenza come un «sistema informativo capace di ricevere dati, contestualizzarli e interpretarli dotandoli di senso, conservarne almeno una parte, gestirli e collegarli fra loro, traducendoli in ulteriori informazioni e in azioni». Sottolinea inoltre – portando come esempio la trasmissione del codice genetico – che questo «sistema informativo» non presuppone affatto una coscienza intesa in senso umano. Torniamo allora alla domanda sui Big Data, ma vale un po’ per tutto, direi. Oggi lasciamo inconsapevoli migliaia di tracce delle nostre azioni, che sono appunto tanti «atomi informativi». L’aggregazione di questi atomi, prima ancora della loro decodificazione, è comunque ultimamente riconducibile alla responsabilità di una o più persone che necessariamente orientano il sistema informativo e il suo «modus aggregandi». Siamo così sicuri che la coscienza, pur cercando di buttarla fuori dalla porta, non rientri da più di una finestra?
Della coscienza ho cercato di parlare il meno possibile, nel mio libro, perché – da una parte – è un termine estremamente ambiguo, utilizzato, in contesti diversi, per indicare le cose più svariate, e – dall’altra – se lo si intende come quel particolare fenomeno soggettivo di cui hanno esperienza gli esseri umani (e probabilmente anche altri animali abbastanza evoluti) quando sono, appunto, coscienti del mondo esterno e del proprio mondo interiore, si tratta di qualcosa di troppo complesso e misterioso per essere affrontato in un volume introduttivo sulle informazioni, i documenti, le biblioteche e gli archivi, anche se non è escluso che qualche nesso importante fra informazione, conoscenza e coscienza effettivamente ci sia.
Se invece si intende la coscienza come sinonimo di «responsabilità morale» allora non era mia intenzione buttarla fuori dalla porta, perché è qualcosa di cui ultimamente mi occupo molto spesso nei miei scritti, soprattutto in quelli dedicati alla deontologia professionale, ma anche, ad esempio, nel capitolo de Il mondo dei documenti dedicato ai valori per l’organizzazione dell’informazione. E comunque, indipendentemente da ciò che io posso scrivere o non scrivere, è indubbio che le responsabilità morali individuali sono fortemente coinvolte in tutte le dinamiche della attuale «società dell’informazione», incluse quelle relative ai Big Data.
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